Fra i tanti componimenti di poeti italiani scritti in seguito alla morte sconvolgente dell'Imperatrice d'Austria, ve n'è una anche del Pascoli che venne pubblicata per la prima volta sulla «Minerva» alla fine del 1898. Secondo lo stile proprio del poeta, tanto vicino agli sventurati, a coloro cui la malasorte aveva tolto tutto, anche la possibilità di redimersi e di costruire un nucleo famigliare (il concetto del "nido" tanto caro al poeta), il componimento non è affatto dedicato all'Imperatrice ma al suo assassino che proveniva da una condizione miserevole e che con quell'omicidio insensato si era precluso qualsiasi tipo di redenzione.
Ma al contempo, si riconosce quanto Elisabetta stessa fosse esattamente come lui: infelice e triste. Con quell'omicidio Sissi aveva di certo trovato la pace... ma lui? Non la trovò, anzi s'impiccò il 19 ottobre 1910 nel carcere di Ginevra.
"NEL CARCERE DI GINEVRA"
...Dormi - parlò, - figlio dell’uomo ignoto?
dal tuo delitto erri lontano? hai morso,
per non tornarvi, al dolce fior del loto?
dormi? Oh! lontano tu sei già trascorso.
Nel sonno oscuro il tuo pensier calpesta
suolo senz’eco e vie senza rimorso.
Non m’odi? Io pendo sopra la tua testa;
busso al tuo cuore taciturno e vuoto.
Sai chi ti chiama? sai chi ti ridesta?
Odimi: sono il padre tuo, l’Ignoto.
Son io che uccisi, forse; io non veduto;
sì; io che piango a capo del tuo letto
e che parlo nel tuo carcere muto.
Piangiamo insieme. M’odi? Eri un reietto,
un solitario nella dura via;
andavi senza pane e senza tetto
e senza nome; e della legge pia
non t’accorgesti che per le catene;
e la tua patria t’intimò: Va via!
anche tua madre, Va! ti disse... Ebbene?
Eri — suprema gioia — eri innocente!
potevi dir tendendo le tue braccia:
«Voi tristi, io buono; e voi tutto ed io niente!
Perchè lo soffro, non perchè lo faccia,
conosco il male; e voglio che non resti
del vostro male nel mio cor la traccia:
io v’amo!» Eri innocente, eri dei mesti
di cui far bene è non dover, sì gioia:
eri la dolce vittima; volesti
essere... sciagurato, essere il boia!
Qual tesoro di pianto non deterso
e non veduto, di superbo pianto,
hai con un’ebbra voluttà disperso!
hai rinnegato quel dolor tuo santo,
che venne teco a tanta via, che pure
ti si sarebbe addormentato accanto!
hai disertato dalle tue sventure!
hai voluto tiranno essere e reo!
perchè l’hai tolto a qualche regia scure
il ferro per il tuo pugnal plebeo.
Tuo focolare era il dolor del mondo,
o senza tetto! Uscisti: il tuo pugnale
cercò, cercò, con odio vagabondo.
Ma tu dicevi, nell’andar fatale,
vedendo il pianto in ignorate ciglia:
«Tu mi sei sacro per il pane e il sale:
ave, infelice della mia famiglia!
conosco il segno che non si cancella:
va!» ...No: con l’arma che gocciò vermiglia,
passasti il cuore d’una tua sorella!
D’un’infelice!... Oh! la sua reggia? Niuna
la invidïò, che presso il foco spento
pure ci avesse un tremolìo di cuna.
Niuna il suo trono invidïò, che il lento
figlio aspettasse, tuttavia, lunghe ore,
nell’abituro battuto dal vento.
Niuna mutato il suo pur mesto cuore
col cuore avrebbe, che tu hai trafitto;
niuna, nel mondo in cui si piange e muore;
fuor che tua madre, dopo il tuo delitto!
Or ella ha pace, e tu non l’hai: ti sento
gemere, o figlio. E sorge una lunga eco
nel cavo sonno al tacito lamento.
Tu non lo sai, quel sangue, più, nel cieco
errare: incontri i sogni che lo sanno;
ed un eterno calpestìo vien teco.
O nell’immoto sonno ombre che vanno!
Io piando, o figlio, sopra il tuo destino;
piango per ciò, che non t’uccideranno,
ti lasceranno vivere Caino!
Son io che uccisi forse; io che da’ lidi
lontani, senza disserrar le porte,
venni, e ti parlo; e piango, perchè vidi.
Vidi dall’alto, vidi dalla morte:
da quel supremo culmine del vero
tra voi non vidi il grande, il ricco, il forte,
re, plebe. Vidi un formicolìo nero
di piccole ombre erranti per le dune,
e ne saliva dentro il cielo austero
un grido d’infelicità comune.
Tutti mortali — oh! tu lo sai! lo vuoi!
c’è, mancando la gran falce, il pugnale
piccolo! oh! sempre si morrà tra voi! —
tutti infelici! Che se c’è chi sale
e chi discende in questo fiottar lieve,
l’acqua ritorna, con la morte, uguale.
E l’odio è stolto, ombre dal volo breve,
tanto se insorga, quanto se incateni:
è la pietà che l’uomo all’uom più deve;
persino ai re; persino a te, Lucheni."
O nell’immoto sonno ombre che vanno!
RispondiEliminaIo piando, o figlio, sopra il tuo destino;
piango per ciò, che non t’uccideranno,
Ho trovato un refuso che segnalo: piando invece di piango...
Grazie mille!!
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